L’importanza della supercaxxola

 

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Sarà un paio di anni che ho preso il Master in programmazione neurolinguistica con il Coach Andrea Favaretto.

Non sto qui a raccontarvi il corso perché sono cose che puoi solo vivere. Semmai vi dovrei consigliare di farlo direttamente e  forse non tutti sono disposti ad investire più di 3000 euro solo perché vi dico che è bello.

Ma non sono qui per parlarvi del corso, ma di un particolare del corso che, lo ammetto sono lenta a capire le cose,  ho capito solo di recente e applico da un po’.

Ciascuno di noi ha vissuto la sua vita, esperienze, emozioni, ha la sua modalità di elaborare esperienze ed emozioni, ha il suo lavoro, fa le sue scelte personali, questo implica che siamo tutti pezzi unici. Potremmo avere un fratello gemello omozigote, che ha fatto le nostre stesse identiche esperienze, magari abbiamo sposato due sorelle omozigote, eppure qualche differenza l’avremmo comunque.

Perché vi sto facendo tutto questo discorso? Cosa c’entra con la supercazzola?

C’entra.

Ricordate il film “Amici miei”? Se non lo ricordate questo è un buon memo

 

Che cos’è una supercazzola e a cosa serve?

Nel film la supercazzola serve ovviamente a confondere l’interlocutore che  cerca di capire, ma ovviamente, essendo frasi e parole senza senso, spiazzano perché, come ci capita a volte nella vita, non capiamo, ma colmiamo la lacuna di ciò che non capiamo, con qualcosa che per noi ha un senso.

Ecco quindi che la supercazzola ha una sua nobile funzione utilizzata come comunicazione vaga, che lascia all’interlocutore, ampi margini di adattabilità al contesto che gli interessa.

Così il coach, quando lavora col cliente, anche se non fa delle vere e proprie supercazzole, a meno che non si stia proprio volutamente scherzando o citando il film di cui sopra, utilizza un linguaggio sapientemente vago, che lascia al cliente la possibilità, durante il lavoro, di “spiegarsi da sé” i fatti in cui è coinvolto.

Facciamo un esempio. Mettiamo che il mio cliente sia appassionato di moto di cui, ho capito, predilige il suono del motore. Se io gli dico “Oggi poi vai di  bruuuum bruuuum!” per un altro che ascolta, non avrebbe nessun senso, ma io e il mio cliente, ci siamo capiti perfettamente.

Ecco quindi in sostanza cosa è un linguaggio sapientemente vago, io non dico una cosa specifica, ma lascio che l’altro costruisca il resto, il non detto. Come un disegno di cui ho tracciato solo i puntini, un rebus,  come quei disegni tipo questo

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Noi crediamo che la realtà sia reale, oggettiva. Esiste invece un immenso mondo percettivo, che si differenza da persona a persona. E per capirci, con i nostri interlocutori più che la precisione della comunicazione è necessaria una comunicazione plastica, che lasci all’interlocutore la possibilità di essere riplasmata.

E’ un confine molto sottile e non so se riesco a trasmettervi l’importanza di questa cosa. E’ un po’ come quando parliamo con un neonato  dicendo cose senza senso, perché comunque il neonato, non comprende il significato, ma solo il suono, il tono, l’altezza del suono e l’emozione con cui ci rivolgiamo ad esso.

Ecco a volte questa cosa la fa anche il coach. Perché l’empatia, il grado di connessione più profonda col cliente si crea con tutto, con l’ascolto, con la comprensione della mappa del mondo, delle modalità e  sottomodalità, col significante, perché il significato è il cliente a mettercelo, arrivando a quel grado di chiarezza interiore proprio perché il lavoro si fa insieme, ma il senso finale lo dà tutto il cliente. Con questo non voglio dire che il coach dica cose senza senso, anzi, dice cose molto sensate, solo che non parla seguendo la propria mappa, ma quella del cliente ed entrando nella sua modalità percettiva.  Una cosa che non avrebbe molto significato per chi si trovasse a passare di là ascoltando un pezzo di conversazione.

Ho visto Favaretto al lavoro durante il corso, prendevo appunti e osservavo, ma, ovviamente, scrivendo, alcune cose me le perdevo, poi ho posato il quaderno e ho allertato tutti i sensi e vedevo il grado di comunicazione profonda tra lui e il mio collega che in quel momento si trovava a fare il cliente.

La cosa incredibile è che percepivo ma non riuscivo a tradurlo. Cosa fa Favaretto? L’ho capito dal momento in cui, nel mio lavoro, ho cominciato ad applicarlo a farlo mio.

Prima di quel corso, cercavo di spiegare le cose, adesso le ascolto e traduco nella lingua del cliente ciò che voglio gli arrivi, sono io a parlare la sua lingua. Credetemi, c’è una bella differenza  tra il coach che ero e quello che sono.

Quindi evviva la supercazzola!

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